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Di là dal paesaggio

Luglio 6, 2023 @ 17:00Luglio 30, 2023 @ 22:30

Che cosa c’è oltre il paesaggio?

La domanda può sorgere spontanea leggendo il titolo della prima raccolta di liriche di Andrea Zanzotto, Dietro il paesaggio, pubblicata nel 1951. Traghettato dalle parole in un viaggio al tempo stesso terrestre e metafisico, il poeta veneto scomparso dodici anni fa ricrea un paesaggio dove la natura e l’io sembrano fondersi e confondersi: il risultato è un voler andare oltre il paesaggio, tanto quello reale quanto quello interiore. Per l’appunto, andare dietro di esso, e intorno ad esso “cingersi” per poi “volgere le spalle”.

Ma come si fa a cingersi intorno al paesaggio? E cosa vuol dire volgere le spalle? Voltarsi, e lasciarsi il paesaggio dietro di noi? Oppure superare quest’ultimo, andare di là da esso?

Di Zanzotto diceva Montale che egli “non descrive”, ma “circoscrive, avvolge, prende, poi lascia”. Il poeta di Ossi di seppia aggiunge anche che “non è proprio che cerchi se stesso e nemmeno che tenti di fuggire alla sua realtà; è piuttosto che la sua mobilità è insieme fisica e metafisica”.

Un bisogno analogo di mobilità e di circoscrizione sembra trasparire dalle opere di Luca Boffi e di Jacopo Valentini. Partendo da due pratiche di creazione radicalmente opposte – l’installazione e la performance da un lato, la fotografia dall’altro – i due artisti sono accomunati dall’aver fatto del paesaggio il soggetto principale delle loro investigazioni, ma anche da un’idea di paesaggio come luogo insieme reale e fittizio, esteriore e interiore, fisico e metafisico, nel quale l’artista deve, per trovarsi, innanzi tutto perdersi. In altre parole, un’idea di paesaggio che coincide con quella di spaesamento. 

Prima di chiedersi cosa ci sia di là dal paesaggio occorre capire come s’intende utilizzare una parola all’apparenza così ordinaria e lineare, in realtà ricca di stratificazioni e contraddizioni.

Quando in arte si parla di paesaggio si pone subito una difficoltà: cosa separa il paesaggio cosiddetto “naturale” – quello che ci appare quando vi siamo immersi – dalla sua rappresentazione artistica, per esempio quella di un dipinto? Verrebbe spontaneo dire che il primo è un paesaggio “oggettivo” e “reale”, frutto della nostra percezione sensibile, mentre il secondo una proiezione soggettiva di quella stessa sensibilità in uno spazio altro, come quello di una tela. Ci si rende conto tuttavia dell’impossibilità di un paesaggio “oggettivo” nel momento in cui, come ricorda Philippe Descola nel suo testo-chiave Par-delà nature et culture, “la natura e il mondo sono essi stessi prodotti come degli oggetti autonomi per grazia dello sguardo che l’uomo porta su di essi”. L’illusione, tutta moderna, di una natura assolutamente oggettiva – un’illusione coltivata fin dall’invenzione dei dispositivi per misurare visivamente il reale, dal microscopio al telescopio, ma anche dalla prospettiva alla fotografia – deve scontrarsi con l’impossibilità di considerare come neutro ogni tentativo di misurazione, a partire dalla sua forma più elementare, quella dell’occhio nudo. Per il solo fatto di guardare un paesaggio “reale”, di sottometterlo al nostro sguardo, stiamo selezionando una porzione di spazio per mezzo del nostro campo visivo, e sempre da un punto di vista specifico. Cambiare quest’ultimo – indietreggiando o avanzando, voltandoci, orientando lo sguardo verso un’altra direzione – significa cambiare tutto, inclusa la percezione di quel paesaggio che crediamo fissa e immutabile solo perché mediata dai nostri sensi senza altri filtri.   

Questa mostra parla sì di paesaggio, ma lo fa in un certo senso a partire dalla sua stessa impossibilità, e da quella condizione intima di spaesamento che entrambi gli artisti intendono indagare in primo luogo. Il “di là dal” del titolo suggerisce quindi un oltre simbolico prima ancora che spaziale, poiché esso mira a evocare un superamento del paesaggio come concetto caro alle arti visive. Operazione tutt’altro che nuova – si pensi a come questo stesso concetto si sia trasformato, negli ultimi anni, ad opera delle tecnologie immersive – ma che si riallaccia a una storia che sembra portare fin dai suoi primordi i germi di quel superamento.

Questa storia – la storia del paesaggio – comincia come è noto con l’invenzione della cosiddetta “finestra interiore” da parte dei pittori fiamminghi del XV secolo, quando le scene sacre iniziarono ad accompagnarsi, sullo sfondo degli interni in cui erano rappresentate, da finestre aperte su vedute “profane”, per l’appunto paesaggistiche. Funzionando come vero e proprio dipinto nel dipinto, quella veduta ambientale assume via via un’autonomia propria, avulsa da simbologie religiose, finendo – racconta Alain Roger nel suo Court traité du paysage –  per diventare un soggetto a sé, che la modernità ha legato alla rappresentazione della natura. In tal senso il paesaggio nasce già dietro e oltre, custodendo in sé il suo stesso, continuo superamento: da elemento ornamentale asservito alla simbologia religiosa, a genere di raffigurazione oggettiva del mondo. 

Questa presunta oggettività – vero e proprio dogma in quella religione laica che è la scienza – è ormai anch’essa ampiamente superata. E se questa mostra parla di paesaggio, non può certo farlo a partire dalla sua rappresentazione. Se mai, essa può e deve farlo a partire dalla sua ri-presentazione, intesa quindi come una sua seconda creazione : partendo da elementi reali e materiali essenziali – terre vulcaniche spoglie, schiere di alberi e rocce in Jacopo Valentini; erba, argilla e corteccia in Luca Boffi – la mostra mira a ricomporre una grammatica paesaggistica spoglia di ornamenti o particolari artifici compositivi, che proceda per addensamenti – come nelle sculture di Boffi – e rarefazioni – come nelle vedute di Valentini – fino a incontrarsi simbolicamente in Doccia, installazione immersiva realizzata a quattro mani da entrambi gli artisti.

In questo percorso non trova spazio l’attivismo ambientalista che pure è così cruciale negli anni che viviamo. Esso mira, piuttosto, a restituire al pubblico un’idea essenziale e sensibile di paesaggio, nella quale qualsiasi narrazione e qualsiasi affermazione in chiave ecologista risulterebbero accessorie e fuori luogo. Al suo centro non vi è che l’interazione, nuda e simbiotica, dei due artisti con il paesaggio. In Jacopo Valentini questa interazione passa da quello che lui definisce un “dislocamento ad opera dell’immaginario”: dislocamento che avviene nel momento in cui l’artista, per mezzo dell’obiettivo, circoscrive e sottrae al reale i luoghi che esplora. Per Luca Boffi, invece, si tratta di abitare poeticamente i luoghi del suo quotidiano e della sua memoria, in un certo senso essere quegli stessi luoghi: “Vivere la pianura. Scomparire tra gli alberi […] esercizi dedicati a personificare e fabulare il paesaggio che abito”.

Per entrambi si tratta, infine, di uno spaesamento a cui segue un reimpaesamento: fare astrazione di sé, perdersi nel paesaggio per poi in esso ritrovarsi.

 

 

Dettagli

Inizio:
Luglio 6, 2023 @ 17:00
Fine:
Luglio 30, 2023 @ 22:30
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